Parole chiavi Cortesia 客气, brindisi 干杯, gerarchie等级, faccia 面子

Michael Harris Bond, professore di Psicologia alla Chinese Hong Kong University e autore tra gli altri di The Psychology of the Chinese People (1986) e Beyond the Chinese Face (1991), distingue cinque principali connotazioni del processo comunicativo cinese:

  1. Hanxu 含蓄, la comunicazione implicita;
  2. Tinghua 听话, la centralità dell’ascolto;
  3. Keqi 客气, cortesia e buone maniere;
  4. Zijiren 自己人, il focus sul proprio gruppo di appartenenza, familiare o sociale;
  5. Mianzi 面子, le strategie di comunicazione dirette a proteggere, difendere e accrescere reputazione e credito sociale, “la faccia”.

 

Per il momento ci limiteremo alla disamina della terza parola fondamentale che appare nella elencazione di Bond (1986), ovvero la “cortesia”, keqi 客气.

Ci soffermeremo su alcune tra le altre parole elencate, che corrispondono ad altrettanti valori culturali fondamentali,  in relazione a ulteriori categorie confuciane.

Keqi è la regola fondamentale del processo di comunicazione e si radica nel concetto cinese del “sé”, che identifica e definisce se stesso, piuttosto che individualmente, soprattutto nel contesto relazionale e sociale con gli altri.

Keqi si impone quindi nella cultura cinese come un vero e proprio rituale, anche piuttosto complesso e ben noto a tutti gli occidentali che per esempio abbiano fatto l’esperienza di una relazione di lavoro con  i cinesi.

Ne sono una testimonianza esemplare le regole di etichetta intorno alla tavola del banchetto, dove anche il portavivande rotante è funzionale a far condividere ogni portata e a “socializzarla”, in una complessa danza codificata nel rispetto dei ruoli e delle gerarchie.

Il banchetto è così un momento di unione sociale, che trova la sua espressione simbolica nella condivisione delle portate dalle quali tutti attingono, a volte persino in “comunione di bacchette”.

In un convivio ufficiale i posti sono solitamente già fissati, ma in ogni caso è norma tradizionale che il posto di fronte alla porta sia quello di chi offre il pranzo o la cena, mentre i posti accanto a quest’ultimo sono riservati agli ospiti più importanti. Se i partecipanti appartengono a due gruppi sociali distinti, due famiglie, due aziende, due istituzioni, i membri di ciascuno di essi vengono disposti in ordine alterno, perché ciascun gruppo abbia uno scambio bilanciato con l’altro, al fine di comporre l’armonia tra le parti.

Il rispetto per chi condivide la stessa tavola si mostra nel servizio reciproco, che obbliga ciascun commensale a servire reciprocamente il vicino prima che a servire se stesso e a invitare gli altri commensali in una danza di brindisi, i famigerati ganbei 干杯, il cui significato letterale è quello di “vuotare il bicchiere” o “bicchiere asciutto”, che obbligherebbero i commensali a bere d’un fiato la grappa di cereali contenuta nel minuscolo bicchiere, capovolgendolo poi per mostrare di averne vuotato fino all’ultima goccia. Il significato simbolico di questo “vuotare il bicchiere” è quello di voler condividere totalmente, “fino all’ultima goccia”, la pienezza dell’esperienza di una relazione sociale.

A tavola non si parla di lavoro, non si affrontano problemi legati al mondo del profitto e della produzione, ma si costruisce l’armonia relazionale e si “sporca” volentieri il tovagliato, inversamente a quanto richiederebbe il galateo occidentale, per testimoniare di aver gradito il pasto e di averne in abbondanza servito e ricevuto.

Esistono altri tavoli per trattare negoziazioni, proporre presentazioni power point, insegnare ed apprendere nelle accademie. Il tavolo del convivio è il luogo ove lasciare spazio solo alla buona cucina, perché esprima le sue straordinarie potenzialità di ammortizzatore sociale.

Intorno a una tavola sulla quale mai devono comparire i coltelli, dove l’estetica confuciana del rito resiste prepotentemente nella contemporaneità, i cinesi osservano attentamente i comportamenti dell’altro, sia esso cinese e sia esso occidentale, la sua generosità nel servizio dei commensali, la sua attenzione e lo spirito di cura verso i suoi simili, così come esso si riflette in ogni gesto.

Cerchiamo di arraffare con i bastoncini tutto quello che capita sotto tiro, oppure li posiamo cortesemente sul porta-bacchette, soffermandoci in una cordiale conversazione con il vicino? Parliamo troppo poco e ci dimostriamo disinteressati oppure siamo loquaci ed eccessivi? Serviamo gli altri o pensiamo solo a noi stessi?

Mentre il ritmo delle portate si sussegue incessantemente, senza le pause di un pranzo occidentale, a tavola si gioca anche una sofisticata danza delle gerarchie: si inizia a mangiare quando la persona di grado più elevato abbia dato l’avvio e dopo che tutti siano stati serviti, e si termina inequivocabilmente solo quando la stessa persona avrà proferito l’ultimo discorso di congedo; e se qualcuno di grado gerarchico superiore invita a scambiare un brindisi, si dovrà abbassare il bicchiere in segno di rispetto, aspettandosi tuttavia che anche il superiore lo abbassi a sua volta, a mostrare benevolenza e apprezzamento, in un gioco di reciproca umiltà che finirà col porre i bicchieri uniti al più basso livello possibile, quello della superficie della tavola.

Anche nella relazione ospiti-invitati l’ospite dimostra keqi facendo di tutto per mettere l’invitato a proprio agio e questi ricambia la cortesia cercando di non abusare dell’ospitalità.

La peculiare sensibilità che i cinesi nutrono verso le regole di cortesia spiega perché possano sentirsi infastiditi anche dalla mancanza di piccole attenzioni, collegate al loro benessere o alle loro abitudini di vita, quali per esempio la mancanza di un bollitore per infondere il tè negli alberghi in cui vengono ospitati. Se per un occidentale si tratta di dettagli, per un cinese un semplice atto di cortesia diventa un elemento potente di facilitazione del rapporto.

Il rituale di keqi è anche una complessa altalena di offerte e declini, in una sequenza solitamente strutturata come segue: offerta-declino-offerta-declino-offerta-accettazione.

Una tazza di tè è anch’essa simbolo di keqi e va accettata con entrambe le mani e sorseggiata con lentezza, come per una preziosa degustazione.

Altrettanto vale per i biglietti da visita, che vanno tenuti con il pollice e l’indice di entrambe le mani  e rivolti verso l’interlocutore in modo che possa leggerne il contenuto agevolmente e allo stesso modo ricevuti con entrambe le mani e letti nello stesso istante della presentazione, come segno di attenzione verso chi si sta presentando.

Anche le strette di mano devono rispettare le regole di cortesia e di gerarchia: a offrire la stretta di mano sono il padrone di casa, le persone anziane, le persone di posizione sociale più elevata e le donne, mentre gli ospiti, le persone di posizione subordinata e i giovani devono salutare prima ma attendere dagli altri l’invito a stringere la mano.

L’inchino profondo profuso nel passato è in disuso, sostituito nella modernità da un gesto più lieve di spalle inclinate.

La puntualità – che per i cinesi significa non arrivare in ritardo ma neppure in anticipo – è anch’essa norma di cortesia da non trasgredire, un regalo cosa sempre gradita, ma che i cinesi offrono alla fine di una visita, di un banchetto, di un incontro, non all’inizio, e che non scartano, a testimoniare l’importanza del gesto più che dell’oggetto, ma anche per non tradire eventuali manifestazioni di piacere o dispiacere, che sarebbero entrambe inopportune.

Keqi interpreta i valori cinesi della modestia e della umiltà: ricevendo un complimento infatti un cinese è tenuto ad applicare keqi, schermendosi e quasi scusandosi con una frase come questa: “No davvero, sono ancora molto lontano dal raggiungere i risultati che lei mi attribuisce (哪里哪里,还差得远呢)” .

L’etichetta è quindi uno strumento efficace di presentazione di sé: il primo giudizio che il cinese dà dell’altro passa attraverso il vaglio delle buone maniere e delle regole di cortesia, ma ciò non è sufficiente a spiegare quanto questo valore permei ogni tipo di interazione e debba rappresentare non solo un abito superficiale, ma una competenza, una vera e propria skill della relazione sociale[1]. Per dirla con semplicità, keqi non sono i salamelecchi, ma “la cura verso l’altro”, indice di umanità e sensibilità, valori tradizionali di matrice confuciana.

Ricordo l’espressione di meraviglia di una imprenditrice lombarda, presidente di una importante associazione industriale del territorio che, avendo con pragmatismo femminile servito personalmente il caffè agli ospiti cinesi di una delegazione in visita, mi testimoniava di averne ricevuta una gratitudine manifesta e duratura. La reazione cinese le era stata gradita ma le era sembrata contestualmente “esagerata”: il suo gesto era stato spontaneamente compiuto da un lato con lo spirito di servizio che è tra le caratteristiche della specificità femminile di “genere” e dall’altro con sano pragmatismo lombardo, al di là della funzione gerarchica. La profondità dell’apprezzamento del gesto da parte cinese le era apparso improvvisamente chiaro solo dopo aver apprese le regole cinesi di business etiquette, di partecipazione e modestia, di ritrazione e benevolenza[2].

Daniello Bartoli, autore secentesco della monumentale Istoria della Compagnia di Gesù, dispone le notizie per argomenti e ordina le rubriche, sistematizzando, rielaborando e dando corpo letterario, con prosa colta e barocca, alla congerie di annotazioni che gli pervengono dai missionari della Compagnia e suoi confratelli inviati in terre lontane, in Oriente, in luoghi spesso di difficile comprensione come la stessa Cina.

Nella Istoria della Compagnia di Gesù, ai cinque volumi sulla Vita e istituto di Sant’Ignazio (1650) fanno seguito la  Vita di p. Carafa (1651), L’Asia (1653),  la Missione al Gran Mogor di p. Ridolfo d’Aquaviva (1653), Il Giappone (1660), La Cina (1663), L’Inghilterra (1667), L’Italia (1673).

Il XXX capitolo del I libro del volume La Cina si intitola in particolare Delle mille cerimonie dei cinesi e rende con sapido gusto l’impressione che un italiano del Seicento poté trarre dalla osservazione della ritualità dei suoi contemporanei cinesi.

Tra le più vivide annotazioni annoveriamo quella sul disagio indotto nell’europeo dall’eccesso delle cerimonie cinesi.

… E’ malagevole a statuire, se le cerimonie sien da contarsi fra le virtù , o fra’ vizi de’ Cinesi. Conciosiaché  per una parte essi indubitabilmente siano la più manierosa, e costumata nazione del mondo, e appunto degna che il lor paese si chiami col titolo che gli danno, il regno delle gentilezze: per l’altra parte, se si può dir che le cerimonie siano come gli odori, de’ quali il moderato giova, e conforta, il troppo infastidisce, e nuoce, essi ogni menoma cosa profumano di cerimonie, tali, e tante, che qualunque sia ordinaria azione, ne ha più che un sacrificio solenne: onde il lor convenevole, per ismoderato eccesso, si fa tutto disconvenevole. (…).

Or dunque, delle cose più diligentemente fra loro studiate, una si è questa, dell’atteggiar la vita con garbo, e darle bella attitudine, piegandosi nelle riverenze, e certe loro cascate, fino a posar la fronte in terra, e ne’ movimenti delle braccia, che in questo affare lavoran con arte, e in quant’altro del loro gran cerimoniale andremo appresso dicendo: tutto da farsi con una grazia di tal sorta, ch’ell’abbia niente meno del maestoso, che del leggiadro: e ogni cosa riesca a tempo, e quanto al più, o al meno, sia misuratissimo colla qualità dell’azione, e col merito della persona. E conciosiaché si stia in questi vani affari, si può dire, da mane a sera, non può altramente che non rechi gran meraviglia l’invincibile pazienza, con che tal volta si duran le lunghe ore senza far altro, che questi inchinarsi, e quegli in piè ricever gl’inchini: perché per molti che ne facciano, non gli affrettano per ispicciarsi, ma van lento lento snodandosi, come si movessero per ordigno di ruote congegnate loro dentro la vita: e in tanto, non è men da notarsi colui ch’è riverito, mentre con un certo artificioso contorcersi, e dimenarsi, va facendo mostra d’un gran patire a quegl’inchini, e di rifiutarli, come sovrabbondanti al suo merito; ma tutto dentro ne gode, e ogni piccolo mancargli nella cortesia sarebbe un grande offenderlo nell’onore[3].

Non dobbiamo pensare naturalmente che in Cina le cose oggi stiano così, né che tutto questo inchinarsi sussiegoso descritto dal Bartoli permanga nelle abitudini contemporanee, quel che permane è però l’estetica delle buone maniere e la sostanzialità della cortesia nella relazione umana.

La descrizione degli inchini tradizionali e della tipica ritrazione cinese di fronte a questa espressione di rispetto, la necessità che il rito si compia indipendentemente dal tempo che ci vorrà, sono nondimeno di grande utilità a comprendere la sensibilità cinese verso la “faccia” (mianzi 面子), che ha una valenza culturalmente molto profonda perché affonda le sue radici nello spirito rituale del confucianesimo.

Il concetto di faccia permea ancor oggi, nella cultura cinese, ogni aspetto delle relazioni interpersonali e ha comportato la elaborazione di vere e proprie strategie comunicative definite face-directed, orientate cioè a non perdere la faccia e mantenere rispetto e armonia all’interno del gruppo sociale.

La lingua cinese traduce la parola “faccia” in due modi, con differenti sfumature di significato: lian 脸 (il viso) e mianzi面子(l’immagine). Lian si collega alla fiducia sociale nella integrità del carattere morale dell’io e investe l’etica personale. Mian 面o mianzi 面子invece traduce “la reputazione raggiunta attraverso il miglioramento costante e l’impegno, il prestigio acquisito nella società.”[4]. In altre parole mianzi si riferisce alla proiezione e alla risonanza della immagine pubblica dell’individuo[5], alla forza della sua relazione con gli altri, ne è l’espressione esterna.

La natura relazionale piuttosto che individuale del “sé” nella cultura cinese crea così vere e proprie strategie per “negoziare, gestire e mantenere la faccia”: le conversazioni pubbliche tendono a essere ritualizzate per evitare situazioni imbarazzanti e solo le interazioni private possono essere autonome dai condizionamenti. I commenti critici si fanno e si risolvono in privato, la gestione dei conflitti è sempre sotterranea, non nascosta ma anch’essa ritualizzata.

Il confronto diretto è considerato maleducato e portatore di caos (luan).

Ting-Toomey [6] ha analizzato tre “facce” cinesi: self-face, other-face e mutual-face, ovvero la propria, quella degli altri e in particolare del proprio gruppo, e infine quella “reciproca”, sottolineando l’importanza che ciascuna di queste sia ugualmente protetta, salvaguardata e persino migliorata. E ciò è possibile oggi come ieri coltivando la sensibilità confuciana alla relazione di reciprocità e alla educazione rituale.

Tratto da Sportelli M. (2010), Il Confucianesimo, Xenia, Milano, pp. 37-43

 

Nota dell’autrice
Questo contributo è stato scritto alcuni anni fa, nel 2010. Molti cambiamenti di non poco rilievo hanno mutato la Cina in questi anni e le nuove generazioni cinesi, ambiziose ed educate anche all’estero, sono approdate nel mondo globalizzato del business internazionale. Allora oggi è giusto chiedersi: cosa resta della tradizione cinese di keqi nel mondo cinese imprenditoriale e istituzionale, nella relazione sociale e di business?

A questa domanda risponderemo con nuove pubblicazioni, seminari e studi.

[1] Gabrenya William K., Hwang Kwang-Kuo, “Chinese Social Interaction: Harmony and Hierarchy on the Good Hearth“, in Bond M.H., Chinese Psychology, Oxford University Press, 1996.

[2] Per un approfondimento, si legga Sportelli M., “Pianeta Cina. La sfida di una relazione possibile”, in Quaderni Asiatici, Milano, n. 69, marzo 2005.

[3] Bartoli D.(1997), La Cina, Bompiani, Milano, pp.80-81.

[4] Hu, H.C.(1994), “The Chinese concept of face”, American Anthropologist, 46, pp. 45-64.

[5] Ting-Toomey, S.(1988), “Intercultural conflict styles: A face –negotiation theory”, in Kim Y.Y., Gudykunst W.B., Theories in Intercultural Communication, CA: Sage, Beverly Hills.

[6] Ting-Toomey, S. (1988), op. cit.

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