CONTRIBUTO di Margherita SPORTELLI, pubblicato in PISACANE Giovanni (2007), Manuale operativo di Diritto commerciale cinese, De Tommaso Editore, capitolo 3.

Le negoziazioni svolgono una molteplicità di funzioni che vanno ben al di là del semplice raggiungimento dell’accordo contrattuale, permettendo, in particolare, di comprendere le intenzioni della controparte, di stabilirne la posizione di forza o di debolezza, di individuare gli obiettivi comuni.

In Cina le negoziazioni hanno, se possibile, un’importanza ancora maggiore e possono essere assimilate ai preparativi per un matrimonio.

L’obiettivo perseguito dalla controparte cinese non è sempre, come nella migliore tradizione occidentale, l’efficienza e il profitto, quanto piuttosto la soddisfazione di una condizione generale di armonia (hexie/hemu 和谐,和睦), idonea a soddisfare un ideale di equilibrio proprio della tradizione e della psicologia cinese.

Da ciò deriva il costante bisogno di procedere a frequenti e reiterati confronti all’interno del gruppo che rallentano spesso l’iter negoziale.

Se infatti, il partner occidentale conta i minuti che lo separano dalla sottoscrizione del contratto, i cinesi possono condurre le trattative all’infinito portando la controparte all’esasperazione: tuttavia, quanto l’iter appare lungo tanto la fase finale, una volta appurata la attendibilità della controparte occidentale e la bontà di quello che i cinesi chiamano “lo spirito dell’accordo”, sarà inaspettatamente veloce.

Durante la negoziazione si alternano fasi anche apparentemente contraddittorie e tali da disorientare il negoziatore che non sia adeguatamente preparato per la Cina.

Alla prima fase di apparente passività dell’operatore cinese, che sembra arroccato in posizione difensiva ma è in realtà in condizione attenta di ascolto sia per cogliere i punti di debolezza e sia eventualmente quelli di forza della controparte negoziale, segue, a mano a mano che proseguono le trattative, una sempre maggiore reattività, che lo porta a subissare il partner straniero con mille domande focalizzate spesso sullo stesso oggetto.

Inutile poi aspettarsi o stimolare obiezioni dirette o personali ad aspetti particolari del contratto, il partner cinese cercherà sempre un approccio indiretto al problema: “questa clausola non è gradita al Ministero del Commercio” o “ per questa clausola dovremmo chiedere una specifica approvazione del Consiglio d’amministrazione” ecc.

A questo punto ha inizio la fase di consultazione interna al team,che spesso è composto anche da più di venti persone in qualità di referenti per ogni settore coinvolto.

La lentezza nel prendere le decisioni è inoltre dettata dal doveroso rispetto verso il capo che è più anziano e saggio. Secondo la tradizione cinese le trattative vanno, infatti, condotte con i vertici manageriali ed è anzi considerato sintomo di poca serietà inviare al tavolo delle trattative dei corrispondenti troppo giovani e inesperti.

Infine, agli occhi dell’operatore cinese, assume un valore diverso anche la stipula del contratto: firmare il contratto è solo l’inizio di una relazione, una dichiarazione di fiducia piuttosto che la conclusione, giuridicamente vincolante, di un rapporto commerciale.

In conclusione, per ottenere buoni risultati con i partner cinesi, l’operatore occidentale dovrà  armarsi di molta pazienza, rispettare ritualità e regole del gioco locali, pur rivendicando in questo condizioni di reciprocità, migliorare la propria conoscenza degli orientamenti di valore della cultura orientale che persistono nella contemporaneità, pur tra le contraddizioni e le commistioni  della modernizzazione avanzata e della impetuosa crescita economica del Paese.

3.1. La Cina non è l’Occidente

H.H. Lim (1956), un artista sino-malese che vive a Roma da molti anni,  noto e apprezzato dalla critica d’arte nazionale e internazionale, ha rappresentato di recente, attraverso una delle sue performance artistiche, il concetto di “pazienza” , uno di quelli che saremmo portati a credere stereotipi orientali, mettendo in scena  e in video se stesso durante un lungo immoto e silenzioso dialogo con un pesce.

L’artista tiene in mano una lenza, che incombe sulla grande vasca dove il pesce si aggira solitario, ma non si sa se voglia davvero catturarlo.

Questo dialogo muto è anche una sfida, simbolo della comunicazione cinese.

Per negoziare efficacemente, il primo passo da compiere è quello di cercare di colmare la distanza comunicativa. Per usare le parole dell’artista, non è sufficiente essere geni, la sopravvivenza è affidata alla resistenza.

Per affidarci di contro alle parole di un uomo d’affari di fama come Vincent Lo, artefice del risanamento immobiliare dell’area di Xintiandi a Shanghai, i due fattori di successo nel contesto cinese sono “la perseveranza e la comprensione della cultura”.

Se lo stereotipo della imperscrutabilità cinese è spesso una realtà, ciò avviene soprattutto perché non siamo in grado di comprenderne i codici culturali della comunicazione.

Lo stile cinese è contenuto e riservato a confronto con quello occidentale, che appare più aperto o diretto.

La parola cinese per definirlo è hanxu 含蓄, che infatti include i significati di “contenere, mantenere in serbo”, ma anche di “accumulare e risparmiare”.

Che cosa vuol dire? Significa che i cinesi preferiscono risparmiare parole, piuttosto che profonderle, il che implicherebbe una perdita di senso e di valore.

La preferenza della comunicazione implicita rende quindi possibile negoziare con gli altri i significati[1].

I cinesi inoltre sono socializzati a non esprimere apertamente le emozioni, soprattutto quelle violente o negative, che nella loro tradizione medica associano agli stati patologici[2].

Un proverbio cinese dice huo cong kou chu 祸从口出, ovvero che “ogni calamità deriva dalla bocca”, fonte potenziale di pericolosi conflitti.

E’ per la sensibilità cinese verso la conservazione di rapporti interpersonali armonici che si rende particolarmente importante un uso attento e prudente della parola.

“Noi cinesi non esprimiamo direttamente quello che pensiamo, vi accenniamo soltanto. Stiamo attenti a quello che diciamo perché abbiamo paura di sbagliare. In Cina fai presto a rovinarti la reputazione, forse per questo stiamo tanto attenti con le parole – testimonia Fan Hongying, dottoressa di medicina tradizionale cinese, che insegna agopuntura a Roma – Xi zi ru jin 惜字如金 , risparmia le parole come l’oro, dice il proverbio cinese. Gli italiani invece esagerano, mettono i superlativi dappertutto, il vino è buonissimo, i posti incantevoli … noi cinesi siamo abituati alla moderazione. La vostra mimica facciale mi stupisce: per un cinese muovere troppo gli occhi e la bocca quando si parla, agitarsi troppo è segno di maleducazione”.

Il silenzio mette a disagio noi occidentali, i cinesi invece tacciono per farvi capire che avete la loro attenzione.

L’uso del silenzio, dell’ascolto e l’arte della pausa nel discorso possono essere un potente strumento negoziale, che noi siamo poco adusi a gestire.

Anche l’osservazione critica è poco gradita, e non solo quando sia rivolta verso la controparte. Osservazioni critiche sulle linee di governo del nostro stesso Paese, sugli indirizzi di politica economica, sulla propria azienda, i propri colleghi o il proprio ordine professionale, alle quali a volte ci lasciamo andare shiftando dall’oggetto dell’affare a considerazioni più astratte, non sono comprensibili e disorientano i cinesi, che sono nazionalisti, dotati di spirito di gruppo e non comprendono un interlocutore che parli male del gruppo al quale appartiene o della propria nazione.

Spesso, rispetto alle modalità comunicative degli occidentali, rilevano di non capire bene se stiamo scherzando o parlando seriamente; di contro noi spesso non capiamo, quando i cinesi annuiscono o restano in silenzio, se stiano dicendo sì o no.

E’ buona norma ricordare che, nonostante la rapida modernizzazione dell’economia e la migliore trasparenza del diritto, anche se ci sembra di aver capito tutto della Cina, le sorprese non mancano e la competenza interculturale è di là da venire.

3.2. Comunicare tra Italia e Cina

E.T. Hall e M.R. Hall imputano un differente grado di contestualizzazione della comunicazione alle diverse culture[3]. Secondo gli studi degli Hall, Svizzeri, Americani, Tedeschi, Inglesi, in quest’ordine, preferiscono generalmente l’uso del linguaggio esplicito e della comunicazione diretta, operando una netta definizione della realtà, tra bianco e nero, e richiedendo un uso puntuale delle asserzioni e delle negazioni, con risposte precise, sì o no.

Definiscono tali culture di “basso contesto”.

Di contro, Giapponesi, Cinesi, Indiani, Arabi – e nel mezzo di questo continuum ideale  la cultura italiana – preferiscono il linguaggio implicito, la comunicazione indiretta, l’uso delle ellissi e delle sospensioni, l’enfasi posta sul contesto e sul significato che sta attorno alle parole, curando le sfumature e le allusioni.

Definiscono quindi tali culture di “alto contesto”.

Questa differenza corrisponde peraltro a differenti processi mentali: logico, lineare e sequenziale per l’Occidente, che discende dalla matrice aristotelica del pensiero, focalizzato sul problem-solving; olistico, simultaneo e intuitivo per l’Oriente, che usa l’immagine allusiva dei caratteri ideografici e la mutevolezza pittografica del segno per comunicare le idee.

Ogni lingua porta con sé un bagaglio nascosto di presupposti: guardando alla superficie del discorso, inconsciamente siamo portati ad associarvi il nostro bagaglio, invece di quello di colui che sta comunicando. Questo bagaglio è il “sottotesto”: noi vi leggiamo il nostro invece che quello dei cinesi.

E’ perciò che, il fatto che essi non diano spiegazioni chiare e dirette o non dicano sì né no è spesso  interpretato come una mancanza di volontà di condivisione delle informazioni, piuttosto che come un orientamento di valore culturale, una abitudine antica volta da una parte alla strategia dell’osservazione invece che a quella dell’azione, dall’altra a non offendere l’interlocutore con dichiarazioni brusche e perentorie.

I cinesi sono sensibilissimi e per loro “perdere” o far perdere “la faccia” (diu mianzi 丢面子) è un evento gravissimo.

Quando l’armonia si spezza a causa di un conflitto, le due parti non potranno confrontarsi per discutere e risolvere la questione: questo momento è noto ai cinesi con la parola xinjie 心结, che vuol dire “nodo che stringe il cuore”, ed è un evento temutissimo nel corso delle trattative.

Per evitare questa rottura comunicativa, la parte cinese si aspetta che il partner comprenda intuitivamente il problema e, maturata dentro di sé questa percezione, indichi che ne è consapevole e quindi disponibile a venirne a capo, senza però esplicitarlo.

Si tratta di un gioco raffinato in grado di snervare gli occidentali, ma in Cina gli affari si fanno anche sviluppando l’intuizione e le capacità percettive, che sono qualità legate allo sviluppo della persona piuttosto che a mere competenze tecniche.

Ciò significa che la fiducia cinese si acquista prima dimostrando tatto, maturità percettiva e di gestione delle emozioni, poi competenze tecnologiche o scientifiche: entrambe le condizioni sono necessarie e da sole non sufficienti.

Qualora il conflitto sia comunque inevitabile o già occorso, è necessario l’intervento di una terza parte: la figura del mediatore (zhongjianren 中间人), che garantisce la espressione di entrambe le parti e ristabilisce la comunicazione. Nel contesto cinese la soluzione conciliativa delle controversie può essere una scelta alternativa alla risoluzione giuridica.

Nella negoziazione, l’approccio comunicativo ad alto contesto si esprime attraverso la esposizione prioritaria di tutti i fattori di una situazione, il background, le questioni correlate ma secondarie, mentre solo in un secondo momento si offre il punto di vista.

Nella lingua cinese, la struttura yinwei … suoyi (因为 … 所以), che vuol dire “poiché …, allora…”, rappresenta la struttura normale della comunicazione quotidiana.

L’ampiezza e la precedenza del primo campo (yinwei …因为…) dà l’impressione agli occidentali che i cinesi “non giungano al nocciolo della questione” e che non siano in grado di scambiare efficacemente le informazioni, né di porre obiettivi.

In realtà, benché tale approccio richieda molta pazienza nella prima fase (yinwei …因为…), che serve a sviluppare informazione e conoscenza e quindi a porre le basi corrette della relazione di interazione, quando la prassi della prima fase sia stata corretta, la successiva (quella del suoyi  所以)  è rapidissima e strettamente consequenziale.

 3.3. Le guanxi e la concezione del Tempo

A questa preferenza del linguaggio corrisponde una correlata preferenza nell’uso del tempo. Svizzeri, Americani, Tedeschi, Inglesi ne hanno una coscienza lineare ed esatta, che li fa propendere verso l’impegno finalizzato al raggiungimento degli obiettivi; Giapponesi, Cinesi, Indiani e Arabi ne hanno una coscienza più relativa ed elastica e si sentono impegnati soprattutto verso le persone e i rapporti sociali: lo investono quindi per costruire e cementare relazioni e sviluppare veri e propri network, reti complesse di obbligo reciproco e mutuo vantaggio.

Questi network relazionali sono noti con il nome di guanxi 关系.

La più bella definizione delle guanxi 关系 è stata coniata congiuntamente da Ying Lun So e Antonoy Walker dell’Università di Hong Kong: “Le relazioni nelle economie occidentali oliano le ruote del business, ma non rappresentano né un modello organizzativo né un elemento sostitutivo della legislazione commerciale. Nella società cinese invece le guanxi rappresentano tutto ciò in modo complesso: un metodo di organizzazione dell’economia, un’alternativa alle risoluzioni giuridiche”[4].

In Cina è necessario che la fiducia sociale preceda ogni accordo, e gli accordi sono presi sulla base della fiducia reciproca; la buona volontà è considerata molto importante e sulla base delle buone intenzioni è pure possibile che si richiedano modifiche dopo che un accordo sia già stato firmato dalle controparti.

Nelle buone prassi della business community occidentale invece competenze e rendimento sono sempre considerati più importanti delle buone intenzioni e i contratti hanno valore giuridico vincolante, ci si aspetta inoltre che le trattative siano rapide, lo scambio di informazioni efficiente, mentre la efficacia si misura con il metro della velocità: gli affari sono affari e i rapporti personali non c’entrano.

La percezione cinese del tempo è sempre stata più ciclica rispetto al tempo newtoniano, che scorre in una sola direzione: i cinesi hanno l’esperienza storica dei mutamenti e cicli dinastici, del repentino rivolgersi delle fortune, delle inondazioni dei grandi fiumi che percorrono il loro territorio, della precarietà della vita umana rispetto alle imponenti forze naturali, perciò tendono a stare nel mezzo di questo equilibrio precario e ad accettare i cambiamenti, né considerano alcunché come immutevole ed eterno, “figuriamoci un piccolo contratto scritto da uomini in questa micro-fase della storia dell’umanità”.

Per quanto assurdo possa risuonarci, la psicologia dell’uomo cinese si muove proprio in questo campo meta-storico e ne impronta le prassi della vita quotidiana, comprese quelle della economia e del commercio.

 3.4. Le percezioni della negoziazione

Questa percezione del Tempo fa sì che Americani e Nord-Europei, ma anche i negoziatori italiani, percepiscano le negoziazioni con i Cinesi come un processo senza fine.

L’ambito contrattuale inoltre è troppo fluido per i nostri gusti e le richieste di modifiche all’accordo vengono interpretate come un indice di cattiva fede e una dimostrazione dello stereotipo per il quale i cinesi sono ambigui, inaffidabili, poco trasparenti.

Per i cinesi tuttavia, il contratto, lungi dal concludere l’accordo, serve a definirne “lo spirito”, ovvero le intese di principio, aprendo e inquadrando l’accordo entro un frame  condiviso, mentre la trattativa resta sempre un corpo dinamico, non fossilizzabile entro i vincoli contrattuali. Il lungo tempo che essa richiede serve a cementare la reciproca conoscenza.

Fissare “tempi e modi” secondo il nostro stile negoziale ai cinesi appare limitativo rispetto alle potenzialità infinite aperte da “un rapporto privilegiato di fiducia”, quello che la firma di un contratto dovrebbe sancire.

Questa è la concezione tradizionale della negoziazione e, per quanto molte imprese private e multinazionali cinesi abbiano avviato insieme alla modernizzazione tecnologica anche la occidentalizzazione delle prassi, la maggior parte delle SOEs (State Owned Enterprises) come gli interlocutori governativi conservano comportamenti negoziali di questo tipo.

Ciò non significa che il negoziatore occidentale debba “sposare” le modalità cinesi tout court, ma comprenderne le regole del gioco; avere chiaro il quadro normativo del Paese e informazioni aggiuntive sul contesto politico-amministrativo locale sono inoltre condizioni fondamentali per intraprendere una qualsiasi relazione d’affari e porsi nella corretta posizione, per spiegare con chiarezza che è proprio del nostro stile negoziale definire tempi e modi e che questa migliore definizione per noi non è indice di rigidità e non pregiudica il rapporto di fiducia amichevole.

Il gioco negoziale poggia dunque su un delicato equilibrio di conoscenza, tatto, sensibilità culturale, pazienza e determinazione al contempo, ma anche sul rispetto del procedimento rituale dell’esperienza.

3.5. L’etichetta aiuta ma non basta

Preparare un ambiente favorevole alle trattative con procedure corrette di incontro e accoglienza è un ottimo modo per iniziare, ma non è sufficiente per giungere alla meta.

Nei primi incontri il livello di formalità è molto elevato. Al momento delle presentazioni il galateo cinese prescrive che il biglietto da visita venga porto con entrambe le mani, tenendolo per gli angoli, con un lieve cenno del capo inclinato.

Ricevendo il biglietto da visita da parte di un ospite cinese, è bene fare la stessa cosa e leggerne il nome ad alta voce, con un cenno di apprezzamento, prima di riporlo.

Il cognome cinese precede il nome: il cognome è sempre monosillabo, il nome può essere monosillabo o bisillabo. Chiamare una persona cinese per nome invece che per cognome è molto scortese, anche dopo aver acquisito familiarità con essa: i cinesi sono diventati tolleranti a questo proposito, ma dopo … “molti pugni nello stomaco”, alla fine coloro che sono molto esposti ai contatti con l’Occidente assumono un nome proprio occidentale di elezione, non solo per facilitare la nostra pronuncia, ma soprattutto per evitarci la gaffe dell’utilizzo del nome proprio cinese e del riconoscimento tra nome e cognome.

Comprendere perché il nome proprio sia un vero e proprio tabù è questione sofisticata che riguarda specificamente la sensibilità culturale: nella lingua cinese nome si pronuncia míng 名ed è pressoché omofono di un’altra parola, mìng , che significa destino ed esistenza.

Per i non addetti ai lavori, specificheremo che la lingua cinese è una lingua tonale, ovvero dotata di toni, che si impongono a ciascun monosillabo: míng con il significato di “nome” ha il secondo tono, che è ascendente; anche “destino” si pronuncia ming da una prospettiva solo sillabica, ma con tono diverso, il quarto, che è discendente, ovvero mìng. Míng 名di nome e mìng 命di destino sono caratteri assonanti ma non omofoni. L’associazione mentale tra il nome proprio e il destino discende da questa similitudine fonetica e sviluppa una particolare sensibilità nei cinesi, che ritengono avventato e invadente chiamare l’altro con il nome proprio, perché a nessuno deve essere dato di pronunciarsi sul destino e sulla esistenza di un altro.

I cinesi hanno anche una elevata sensibilità verso il rispetto dei ruoli gerarchici: nei contesti più tradizionali è bene utilizzare l’appellativo di ruolo: direttore Zhang, presidente Hu, amministratore Li, etc.

Le generazioni più giovani, invece, per esempio il figlio o la figlia del direttore Zhang, probabilmente si saranno dati un nome occidentale, che potremo usare se ci verrà chiesto di farlo.

Nelle riunioni, alle quali sono presenti molte persone, è bene rivolgersi al leader e continuare tutto il tempo a parlare guardando lui: i cinesi non sostengono a lungo lo sguardo diretto, bisogna comunque rivolgersi a una persona guardandola, ma evitare di fissarla negli occhi per troppo tempo, utilizzando invece un criterio di maggiore gradualità.

In alcuni casi può risultare difficile riconoscere nei comportamenti i ruoli gerarchici, che pure sono molto forti e necessitano di simboli di status per essere resi evidenti.

Questo avviene perché un proverbio cinese dice: qiang da chu tou niao 枪打出头鸟, il fucile colpisce sempre il primo uccello di ogni stormo: mettersi in evidenza dunque è considerato molto pericoloso, più utile è secondo i cinesi la tecnica della ritrazione.

E’ possibile constatarne gli effetti e l’efficacia anche in fase negoziale.

Data la sensibilità verso le posizioni di ruolo e le gerarchie, inviare al tavolo negoziale qualcuno che abbia una posizione aziendale di spicco è considerato un segno di rispetto nei confronti della controparte, di contro un negoziatore troppo giovane o che non appaia adeguatamente legittimato dai ranghi più elevati dell’organigramma aziendale, per quanto abile, avrà scarse possibilità di successo sullo scacchiere negoziale cinese.

3.6. Le fasi della negoziazione

J.L Graham e N.M. Lam definiscono quattro fasi fondamentali nel processo negoziale e operano una comparazione semplificata ma interessante tra attitudini mostrate dai negoziatori americani e preferenze dei negoziatori cinesi, sottolineando la distanza culturale che li separa[5].

La prima fase pone le basi della conoscenza preliminare: per gli Americani dovrebbe concludersi rapidamente attraverso incontri veloci, contatti informali e chiamate impersonali, per definire gli obiettivi e l’oggetto del business; per i Cinesi è l’inizio di un lungo processo di corteggiamento, fatto di contatti formali e rituali sociali, che si conclude con la ricerca di un intermediario, garante della fiducia, per definire le potenzialità dell’accordo e la possibilità di condivisione di una relazione d’affari.

La seconda fase è quella dello scambio delle informazioni: per gli Americani, data anche la piena autorità dei negoziatori, l’efficacia dello scambio è dato dalla linearità delle vie dirette e dalla chiara formulazione delle proposte; per i Cinesi, data anche la parziale autorità dei negoziatori e la necessità del consenso all’interno del gruppo, “per raggiungere la meta – come recita il proverbio – è meglio non prendere la via più diretta”, mentre per definire correttamente il contesto si rende necessario, piuttosto che avanzare delle proposte, chiedere il maggior numero possibile di spiegazioni.

La terza fase è quella della persuasione: per gli Americani in questa fase occorrono aggressività e assertività ed è bene incalzare la controparte; per i Cinesi ulteriori e continue interrogazioni e domande vengono utilizzate come tecnica di persuasione per snervare l’interlocutore e condurlo a maggiori concessioni finali, vincerà eventualmente chi manifesti la migliore capacità di resistenza. E’ bene tuttavia specificare che i Cinesi non sono orientati a una negoziazione win to lose e che preferiscono mettere l’accento sui vantaggi raggiunti da entrambe le parti attraverso l’accordo, proprio in virtù di quel principio di armonia (hexie/hemu 和谐, 和睦) che essi prediligono.

La quarta fase dovrebbe definire le condizioni dell’accordo: per gli Americani è sufficiente che esso abbia come oggetto “un buon affare”, per i Cinesi occorre che dia l’avvio a “una buona relazione d’affari”, preferibilmente a lungo termine.

Per quanto semplificate, queste linee guida rappresentano una buona griglia di aiuto per individuare il proprio orientamento negoziale a confronto con quello di due culture antitetiche.

Quasi tutte le attività della vita cinese hanno poi un doppio risvolto: quello pubblico e quello privato. Le trattative non fanno eccezione: il loro livello pubblico si esprime nelle riunioni e nei consigli di amministrazione, il loro livello privato include invece le discussioni che si svolgono nel backstage e la condivisione di momenti di evasione, atti a rompere il ghiaccio, dal lauto banchetto alla serata al karaoke, quando la nostra capacità di bere e di fumare viene messa a dura prova.

Per quanto lo sviluppo di queste abilità non sia stata ancora inserita nei corsi di MBA, H. Chee e C. West ritengono, e non per facezia, che non sarebbe una cattiva idea incentrare su questi temi, coadiuvati ovviamente da adeguate tecniche formative, alcuni punti dei programmi delle business school orientate alla formazione delle capacità manageriali per competere in Asia[6].

Un ulteriore modello negoziale utilizzato dagli analisti in applicazione al “caso Cina” è quello di P. Kirkbride, S. Tang e R. Westwood[7].

Secondo questo modello, la prima fase è definita dell’esplorazione, durante la quale ciascuna parte esplora il background dell’altra, le sue posizioni, il grado di flessibilità.

Nella negoziazione cinese, la fase esplorativa verte prima di tutto sulla analisi delle potenzialità insite nella costruzione di una guanxi  关系con la controparte: i cinesi ne misurano letteralmente il peso e quindi passano a individuare i principi generali sui quali fondare la relazione, esplorando le aree di interesse comune.

Questa prima fase richiede evidentemente una buona dose di tempo e di energie ma è sottovalutata dai negoziatori occidentali, che la considerano eccessivamente ritualistica e non necessaria. Nel caso in cui alle nostre manifestazioni di impazienza i cinesi rispondano scortesemente, il che può tuttavia accadere nonostante la loro avversione per i conflitti, è bene non avventurarsi in una guerra di posizioni: quando un cinese è scortese, è lui che ha “perso la faccia”, probabilmente dietro la scortesia c’è una debolezza della sua strategia, che – se sappiamo leggerla – ci ha appena rivelato, noi siamo in vantaggio, sta a lui mostrare che in qualche modo intende ricucire la situazione e a noi eventualmente offrirgli la via d’uscita che conviene a entrambi.

La seconda fase è quella della strutturazione delle aspettative, durante la quale le informazioni disponibili servono a costruire la percezione della reciproca posizione di forza e ciascuna parte cerca di creare una percezione favorevole per sé e sfavorevole per l’altra, sondando il terreno della quantità e del valore delle concessioni disponibili.

Da un canto i cinesi tendono a “dare la faccia” alla controparte, lodandola per strappare le migliori concessioni; dall’altra occultano ogni proprio bisogno o debolezza perché ogni dichiarazione in tal senso, almeno a livello pubblico delle trattative, potrebbe far loro “perdere la faccia”.

La terza fase è quella dello sviluppo delle soluzioni, durante la quale si abbandona l’enfasi sulle reciproche posizioni di forza o vantaggio e si cercano le condizioni comuni dell’accordo.

E’ in questa fase che la prospettiva olistica della negoziazione cinese si pone più chiaramente, perché i cinesi non tendono a risolvere le questioni un punto dopo l’altro, a fasi successive o di sviluppo consequenziale, ma sempre interrelate e connesse le une alle altre (attitudine che deriva loro dalla matrice del pensiero daoista), mentre sono propensi a risolvere tutte le questioni d’un colpo solo, alla fine.

Se perciò lo sviluppo delle soluzioni appare lungo ed elaborato, è da questa attitudine che deriva invece la sensazione che la fase finale sia incredibilmente rapida e per noi inaspettata e improvvisa: in realtà è solo il risultato di un processo condotto in modo differente.

Lo sviluppo delle soluzioni implica sempre una buona dose di compromessi e concessioni reciproche, un do ut des che può avere anche connotazioni negative nelle prassi d’Occidente, ma che per i cinesi è l’esito naturale di ogni interazione, laddove essi minimizzano quanto terreno ciascuna parte abbia ceduto ed enfatizzano invece il riconoscimento e il raggiungimento di un reciproco vantaggio.

La finalizzazione dell’accordo, con la firma del contratto, diventa in questo contesto la “fotografia del rapporto instauratosi tra le parti”, la sintesi di un processo più complesso e  in tal senso non è intoccabile, ma perfettibile[8].

La specificità culturale della prospettiva dello sguardo cinese sul mondo ha come conseguenza naturale e ineludibile una sensibile differenza nelle prassi negoziali e nell’suo delle strategie, ciò che rende necessari un impegno aggiuntivo di conoscenza e la capacità di gestione delle differenze.

Nota dell’autrice
Questo contributo è stato scritto dieci anni fa e per certi versi ha, oltre ai fondamenti storico-scientifici, ancora valore pratico per imprese e professionisti della consulenza, enti e istituzioni che incontrino il mondo cinese.

Tuttavia alcuni cambiamenti di non poco rilievo negli ultimi dieci anni sono occorsi.
E’ possibile contattare l’autrice per saperne di più e per ricevere informazioni su
SEMINARI DI TECNICHE NEGOZIALI IN CINA: DIECI ANNI DI PRASSI E INNOVAZIONI

[1] Gu, Y.G. (1990), Politeness phenomena in modern Chinese, Journal of Pragmatics, 14, 237-57
[2] Bond, M.H. (1993), Emotions and their expression in Chinese culture, Journal of Nonverbal Behaviour, 17 (4), 245-62
[3] Hall E.T., Hall M.R. (1990), Understanding Cultural Differences, Inter-cultural Press, Yarmouth (ME, USA).
[4] Ying Lung So, Walker Anthony (2006), Explaining guanxi. The Chinese Business Network, Routledge, New York.
[5] Graham, J.L., Lam, N.M. (2003-10-1), The Chinese Negotiation, Harvard Business Review.
[6] Chee, H., West, C. (2005), Myths About Doing Business in China, Palgrave Mcmillan, 2004; ed. italiana: Fare affari in Cina tra miti e realtà, Etas,.
[7] Kirkbride P.S., Tang S.R., Westwood R.I.(2003-11-3), “Chinese Conflict Preferences and Negotiating Behaviour: Cultural and Psychological Influences”, Organization Studies, 12 (3), KPMG, Business Week.
[8] Chen M.J.(2001), Inside Chinese Business, Harvard Business School Press, Boston.

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